Figure di donna
tra sacro e profano
nell'arte del '600 e del '700
Essendo un quadro prodotto da una élite a beneficio di un'altra élite, il soggetto, suggerito sicuramente da qualche personaggio erudito della corte medicea, è estremamente complesso e dà la possibilità, alla mano di Bronzino, di realizzare uno dei capolavori più famosi del manierismo in auge all'epoca. Lo stile è molto idealizzato, sensuale ma anche freddo, quasi marmoreo, sublimemente idealizzato.
La tela presenta più livelli di lettura. Il soggetto in generale è quasi sicuramente un'allegoria dell'amore sensuale, del sesso. Venere in primo piano (identificata dal pomo d'oro del giudizio di Paride e dalle due colombe in basso), bacia sensualmente il figlio Cupido, il quale, mostrando vistosamente la sua nudità attraverso le natiche, le solletica un capezzolo. Più complessa è l'interpretazione delle figure sul retro. Il putto con i campanelli alla caviglia, che sparge petali di rosa, ben illuminato sulla destra, simboleggia il riflesso più immediato del piacere carnale, la Gioia; ma, al contempo, si è ferito i piedi con delle spine. Dietro di esso una fanciulla appena in ombra si presenta con un grazioso volto, ma è una figura molto ambigua: la sua natura ingannatrice è testimoniata dall'inversione della mano destra, che sostiene un aculeo di scorpione, con quella sinistra, che invece sostiene un favo di miele, e dal corpo di serpente con zampe da leone, appena visibile in basso; è infatti l'Inganno; dopotutto anche Venere e Cupido si stanno ingannando a vicenda: lei sta rubando una freccia dalla sua faretra, lui le sta sfilando il diadema di perle. Le stesse maschere da teatro, forse un satiro e una ninfa, presenti in basso a destra sono un simbolo della realtà celata dagli inganni.
Sul lato opposto le due figure grottesche sono la Disperazione e la Follia o la Malattia (in basso), che sono le conseguenze di medio e lungo periodo dell'amore sensuale. Infine un vecchio con le ali e una clessidra in alto a destra scosta un pesante velo che scopre la scena: è il Tempo accompagnato dalla Verità (in alto a sinistra), che svela; infatti l'altro titolo del dipinto, e forse quello più azzeccato, è proprio la Lussuria smascherata.
Allegoria del trionfo di Venere di A. Bronzino
Una tenda rossa scostata fa da sfondo a una slanciata Madonna seduta, rappresentata a tutta figura su un invisibile seggio, con alcuni cuscini imbottiti ai piedi. Sorridente e distante, come una principessa elegante, mostra proporzioni allungate soprattutto evidenti nel collo graziosamente curvato, che dà il nome all'opera. Ella tiene in grembo il Bambino, addormentato in una posizione un po' precaria che, con le gambe e le braccia divaricate, sembra sondare la profondità dello spazio attorno a sé. Il Bambino ha un'età inusualmente avanzata, sui dieci anni, come già nella precedente Madonna della Rosa.
Anche la composizione adotta soluzione incomplete, che evitano la tradizionale simmetria nella disposizione del personaggi. A sinistra si assiepano sei angeli, accalcati confusamente in uno spazio ristretto per vedere il neonato. La testa del sesto angelo è incompiuta e difficilmente individuabile: si trova esattamente sotto il gomito destro di Maria. L'angelo in primo piano, di cui si vede la snella coscia nuda e un'ala grigia levata, porge a Maria, sfiorandolo con le dita, un vaso d'argento in cui si riflettono alcuni bagliori, tra cui si distingue un crocifisso: un riferimento all'Immacolata concezione e all'appellativo di Maria come "vaso mistico", oltre che prefigurazione della Passione per il Bambino che, addormentato, ricorda la posizione delle Pietà. Una citazione tutt'altro che casuale lega l'opera alla Pietà vaticana di Michelangelo: madre e figlio hanno infatti una posa simile ma rovesciata e la Vergine indossa una cintura a tracolla proprio come nella statua marmorea. In questo caso però la fascia blocca il vibrare del panneggio setoso, con un effetto bagnato che ricorda la scultura ellenistica. Il velo azzurro intenso non le copre la testa, come al solito, svelando invece una complessa acconciatura con un diadema e file di perle, come se ne vedono anche in altri dipinti di Parmigianino; ricade invece sulla spalla e forma un'ampia piega dietro la schiena, che bilancia compositivamente il volume delle gambe di Maria.
La metà destra è estremamente insolita, anche - ma non solo - per la caratteristica di non finito. È infatti caratterizzata da un'ampia zona vuota, dove lo spazio stacca nettamente su un piano molto arretrato e basso. Qui una fila di altissime colonne di marmo senza capitello (alla base sono molte, proiettanti le loro ombre sui gradini, ma nella parte superiore solo una è dipinta) allude forse al tempio di Salomone e sovrasta un minuscolo uomo emaciato, "così rimpicciolito dalla distanza che a stento raggiunge il ginocchio della Madonna". Egli srotola una pergamena, forse in qualità di profeta o forse quale San Girolamo (che aveva discusso l'affermazione del dogma dell'Immacolata). Accanto a lui doveva trovarsi un secondo personaggio, di cui l'artista fece in tempo a dipingere appena un piede: forse era un san Francesco,
Madonna dal collo lungo di Parmigianino
patrocinante del culto dell'Immacolata. La colonna è legata all'inno mariano Collum tuum ut colonna derivato dal Cantico dei cantici, che spiega anche l'accento posto sul collo della Vergine.
Una delle cifre per intendere l'arte barocca è, come noto, il gusto per la "teatralità": la rappresentazione spettacolare e talvolta anche enfatica degli eventi.
In quest'opera Bernini, mettendo a frutto la sua esperienza diretta di organizzatore di spettacoli teatrali, trasforma, in senso non metaforico ma letterale, lo spazio della cappella in teatro. Per far ciò egli amplia innanzitutto la profondità del transetto; poi, aprendo sulla parete di fondo una finestra con i vetri gialli, pensata per rimanere nascosta dal timpano dell'altare, si procura una fonte di luce che agisce dall'alto, come un riflettore e che conferisce un senso realistico alla irruzione sulla scena di un fascio di raggi in bronzo dorato, così la luce che scende sul gruppo, attraverso i raggi, sembra momentanea, transitoria e instabile in modo da rafforzare la sensazione di provvisorietà dell'evento. Si può facilmente immaginare quanto tale effetto, nella penombra della chiesa, dovesse apparire a quel tempo suggestivo.
L'elegante edicola barocca, realizzata con marmi policromi, nella quale Bernini colloca la scena della Transverberazione di santa Teresa, funge da boccascena del teatro: essa mostra la figura della santa posata su una vaporosa nuvola che la trasporta – come se fosse operante una macchina da teatro nascosta – verso il cielo.
La trasformazione della cappella in teatro diventa letterale con la realizzazione, ai due lati del palcoscenico-altare, di "palchetti" sui quali sono raffigurati – ritratti a mezzobusto – i vari personaggi della famiglia Cornaro. L'evento privatissimo dell'estasi della santa diviene in questo modo evento pubblico, al quale i nobili spettatori paiono assistere non già con trepido stupore e con vivo trasporto devozionale, ma con staccato disincanto; li vediamo anzi - come avviene spesso a teatro - intenti a scambiarsi i loro commenti.
Ma non è per la famiglia committente, bensì per l'ideale platea dei fedeli che si accostano all'altare–palcoscenico della cappella che Bernini mette in scena l'estasi della santa. Egli dimostra qui tutta la sua maestria di scultore, capace di lavorare il marmo come fosse cera, con estrema attenzione ai particolari. La veste ampia e vaporosa della santa, lasciata cadere in modo disordinato sul corpo, è un capolavoro di virtuosismo tecnico, per effetto del quale il marmo perde ogni rigidezza e la scultura sembra voler contendere alla pittura il primato nella rappresentazione del movimento. Commenta a questo riguardo Ernst Gombrich:
«Perfino il trattamento del drappeggio è, in Bernini, interamente nuovo. Invece di farlo ricadere con le pieghe dignitose della maniera classica, egli le fa contorte e vorticose per accentuare l'effetto drammatico e dinamico dell'insieme. Ben presto tutta l'Europa lo imitò.»
La raffigurazione delle estasi mistiche dei santi e delle loro visioni del divino, rappresenta uno dei temi più cari all'arte barocca: i santi "con gli occhi al cielo" aiutano, seguendo le raccomandazioni dei gesuiti sulle funzioni pedagogiche dell’arte sacra, a sentire emozionalmente, con il sangue e con la carne, cosa significhi l’afflato mistico che porta alla comunicazione con Cristo e che è prerogativa della devozione più profonda.
Anche sotto questo aspetto, della raffigurazione dell’estasi, l'opera realizzata da Bernini nella cappella Cornaro, sarà destinata a far scuola e ad essere presa a modello innumerevoli volte nella storia dell'arte sacra.
Sul piano iconografico la Transverberazione di santa Teresa è direttamente ispirata ad un celebre passo degli scritti della santa, in cui ella descrive una delle sue numerose esperienze di rapimento celeste:
«Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio.» (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia)
Il resoconto che la santa ci offre è raffigurato quasi alla lettera da Bernini nella sua composizione marmorea, con il corpo completamente esanime e abbandonato della santa, il suo volto dolcissimo con gli occhi socchiusi rivolti al cielo e le labbra che si aprono per emettere un gemito, mentre un cherubino dall’aspetto di fanciullo giocoso, con in mano un dardo, simbolo dell'Amore di Dio, scosta le vesti della santa per colpirla nel cuore.
Nel dipinto le figure dei santi sono disposte simmetricamente intorno al trono su cui siede Maria, secondo un modello compositivo frequente nelle pale d’altare del Cinquecento.
Le scelte cromatiche, la luminosità e la resa preziosa delle sete dei tessuti rimandano, invece, alla pittura veneta contemporanea. I riferimenti della cultura lagunare si fondono con altri motivi stilistici riferibili ad una rielaborazione personale della cultura parmense, come si riscontra nell’evidente influenza del naturalismo del Correggio e nella ricercata posa di Santa Cecilia, ripresa da modelli figurativi del Parmigianino.
Estasi di Santa Teresa del Bernini
Madonne di Carracci
Il dipinto ci mostra la Madonna vestita in abiti da popolana con Gesù Bambino in braccio e due pellegrini davanti a lei, riconoscibili dalle mani giunte in atteggiamento di preghiera e dai bastoni, nonché dalle vesti sdrucite e dai piedi nudi e gonfi messi in primissimo piano. Fu proprio a causa di questo particolare che, non appena il quadro fu messo sull'altare, come dice il Baglione, "ne fu fatto dai preti e da' popolani estremo schiamazzo". In realtà, il tema dei piedi nudi e gonfi è uno dei "dogmi" fondamentali di quella corrente pauperistica alla quale Caravaggio aderiva con entusiasmo: essi sono il simbolo dell'ubbidienza e della devozione, quindi vanno esaltati e non occultati. I due pellegrini, dopo un viaggio pieno di stenti e dopo il canonico "giro" attorno alla Sacra Casa, vengono ricompensati con l'apparizione di Maria e di Gesù - qui raffigurato non propriamente neonato, ma quasi ragazzino - che li benedice: i piedi gonfi e sporchi sono dunque necessari, e non volgarmente e gratuitamente esibiti come si volle far credere.
Altro motivo di scandalo fu l'apparente "scalcinatezza" della casa e il modo in cui Caravaggio aveva stravolto il racconto biblico. Secondo un'antica leggenda, infatti, la casa di Maria fu portata a Loreto in volo dagli angeli, ma nel quadro l'unico accenno al volo è la postura di Maria, raffigurata in punta di piedi; la casa è, invece, cadente, con l'intonaco scrostato che scopre i mattoni sottostanti: e qui, il Caravaggio vuol ribadire l'adesione alla povertà assoluta della Sacra Famiglia.
Modella per la Madonna fu una nota prostituta nonché amante del pittore, Lena, che poserà anche per la Madonna dei Palafrenieri.
Il dipinto venne rifiutato dai committenti, perché fece scandalo il Bambino, troppo cresciuto per essere ritratto completamente nudo; inoltre, fecero scandalo la scollatura abbondante della Madonna e la modella scelta per quest'ultima, Lena, che era una nota prostituta (aveva posato anche per la Madonna dei Pellegrini).
Alcuni critici sostengono che la Madonna dei Palafrenieri fosse un autentico affronto ai Cardinali: infatti vi era una disputa tra Cattolici e Protestanti su una diversa interpretazione del Vecchio Testamento sull'atto di schiacciare il serpente; secondo i Cattolici doveva essere Maria; secondo i protestanti Gesù. Nel 1566 Pio V risolse la questione riconoscendo questo ruolo ad entrambi. Tuttavia i Cardinali vollero vedere nel dipinto di Caravaggio un eccessivo coinvolgimento di Gesù nell'uccidere il serpente tanto da considerare l'opera eretica.
La tela raffigura tre personaggi: la Madonna, Gesù bambino e Sant'Anna. I primi due personaggi appaiono molto più dinamici rispetto a Sant'Anna. La Santa segue solo con lo sguardo l'azione e sembra una "enorme bronzea figura".
C'è un ottimo gioco di volumi e un'armonia di solidi a contrasto (ad esempio, il petto della Madonna e le pieghe dei vestiti) che conferiscono una estrema verosimiglianza al dipinto.
Infine, la luce gioca un ruolo fondamentale nel dipinto: una proviene da sinistra ed ha il ruolo di formare le immagini ed il volume, l'altra proviene dall'alto e potrebbe simboleggiare, secondo il Brandi, il lume della Grazia divina.
Per rappresentare il serpente, le cui spire ricordano il serpente di bronzo sulla colonna in Sant'Ambrogio a Milano, il pittore si è evidentemente ispirato a un cervone.
In questo quadro Caravaggio rappresenta l'episodio biblico della decapitazione del condottiero assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera. Giuditta è raffigurata intenta a decapitare Oloferne con una scimitarra, mentre alla scena assiste una vecchia serva che sorregge con le mani il drappo contenente il cesto nel quale va conservata la testa.
Nel ruolo di Giuditta venne raffigurata la cortigiana Fillide Melandroni, amica dell'artista. Lo sfondo è scuro, è presente un panneggio rosso in alto a sinistra e una parte minima del letto su cui giace Oloferne. Il pittore fissa l'acme emotivo nell'immagine di Oloferne: lo sguardo vitreo farebbe supporre che sia già morto, ma lo spasmo e la tensione dei muscoli indurrebbero a pensare il contrario. Giuditta, invece, sembra adempiere al suo compito con molta riluttanza: le braccia sono tese, come se la donna volesse allontanarsi il più possibile dal corpo di Oloferne, e il suo volto è contratto in un'espressione mista di fatica e orrore. Accanto a Giuditta Caravaggio ha inserito una serva molto vecchia e brutta, come simbolico contraltare alla bellezza e alla giovi-
Il soggetto è una zingara che mentre legge la mano al cavaliere, gli ruba l'anello che porta alla mano. L'indagine radiografica del 1985 mise in luce il dettaglio delle dita della zingara che sfilano l'anello all'ingenuo giovane ben vestito, che oggi nel dipinto, malgrado i restauri, non è ben visibile. Si tratta di una scena di vita quotidiana, tipica nelle vie del centro di Roma: una graziosa zingarella, con il pretesto di leggere la mano a un ingenuo giovane di buona famiglia, catturando la sua attenzione col suo sguardo maliziosa, gli sfila abilmente un anello dal dito. La giovane gitana è graziosa e spregiudicata: la camicetta ricamata e il turbante avvolto intorno alla testa le danno un’aria fresca e leggermente esotica. Il sorriso con cui attrae l’attenzione del ragazzotto è un gioiello di sottigliezza psicologica. Il volto grassoccio del ragazzo garbato rispecchia perfettamente la sua disarmante ingenuità: anche la piuma che spiove dal suo cappello, sembra accrescere la mollezza del carattere. Il momento culminante della scena è il gesto del dito medio destro della zingarella: mentre accarezza il palmo della mano del ragazzo, riesce a sfilargli abilmente l’anello. Gli orli sporchi delle unghie sono un dettaglio che comparirà più volte nei personaggi popolari del Caravaggio. La scena del dipinto è una tipica " scena di genere", ma può anche essere letto in
Madonna dei pellegrini del Caravaggio
Madonna con il serpe del Caravaggio
Giuditta del Caravaggio
nezza della vedova. In questo modo l'autore sottolinea le differenze tra le due figure e fa risaltare maggiormente la prima.
Giuditta, presentata come simbolo di salvezza che Dio offre al popolo ebraico, assurge anche a simbolo della Chiesa stessa e del suo ruolo salvifico, ulteriormente testimoniato dal colore bianco della camicia della donna, che evoca la purezza. Si dice che Caravaggio abbia dipinto il quadro pensando alla storia di Beatrice Cenci, che, insieme alla matrigna e al fratello, uccisero il padre, dopo averlo addormentato con l'oppio[8]. Del dipinto esiste un'altra versione datata 1607 e conservata a Napoli, ritenuta perlopiù una copia dell'originale.
La buona fortuna del Caravaggio
chiave moralistica con riferimento alla Parabola del Figliol Prodigo (Lc. XV, 11-12 ) e dunque come un ammonimento nel non riporre fiducia nei falsi adulatori e in coloro che vogliono indurre al peccato.
La pittrice manierista Lavinia Fontana venne invitata a Roma nel 1603 da Clemente VIII; in questa città rimase fino alla sua morte e collezionò molti successi, alcuni dei quali le furono commissionati da Papa Paolo V.
Nelle sue opere si riscontra un forte influsso del Correggio e di Parmigianino: questo per via della sua formazione, che fu per l'appunto manierista d'ambito emiliano.
Autoritratto
di Elisabetta Sirani
Una delle prime pittrici di successo in un'epoca che escludeva le donne da determinate arti, Elisabetta Sirani si specializzò nella pittura religiosa, nei ritratti e dipinti allegorici e storici, soggetti biblici e mitologici.
Presto la sua bottega divenne una specie di Cenacolo che raccoglieva anche discepoli, in modo particolare una dozzina di donne che sotto la guida sua e delle sorelle, divennero ottime professioniste.
La velocità produttiva di questa instancabile pittrice divenne leggendaria, tanto che fu costretta a fare dimostrazioni pubbliche per difendere la paternità dei suoi dipinti, mentre il suo laboratorio divenne una fermata obbligatoria per collezionisti e curiosi che venivano da lontano, compreso il Granduca Cosimo III de' Medici.
La produzione di Elisabetta Sirani, che morì a soli 27 anni si aggira su 200 opere, non solo in dipinti ad olio, ma anche in disegni a matita e inchiostro personalizzati da forti contrasti di luce.
Ritratto di Beatrice Cenci di Elisabetta Sirani
Auroritratto di Lavinia Fontana
Autoritratto
di Artemisia Gentileschi
Danae
di Artemisia Gentileschi
A. Gentileschi viene ancora oggi ricordata, sopratutto, per la sua vita privata, a discapito della bravura artistica. Fu la prima donna a denunciare il suo stupratore; data la mentalità del periodo, si sottopose allo schiacciamento delle dita,
affinché la corte credesse alle sue accuse. Questo per una pittrice come lei, non solo fu invalidante fisicamente, ma soprattutto umiliante. Detto episodio la dice lunga sul suo modo di essere donna all'avanguardia, dalla mentalità che andava oltre ogni limite temporale. La denuncia fu formulata dal padre, il quale seguì tutto il processo. Il dipinto, che raffigura una sensuale ed impudica Danae, è stato oggetto di lunghe vicende attributive, se debba considerarsi opera di Artemisia o di suo padre Orazio Gentileschi.
Diverse ragioni attributive hanno portato numerosi critici a schierarsi a favore della mano di Artemisia, collocandone l'esecuzione a ridosso del 1612, periodo in cui, lavorando nella bottega paterna, il suo stile cerca di rincorrere quello del padre. Del tutto simile – nell'utilizzo dei pigmenti e nella stesura di successive velature di colore - è il modo di rendere vivi e fruscianti le pieghe del lino e del velluto, e di dar luce alla rotondità del corpo ed alle diverse tonalità della pelle.
Il soggetto mitologico del dipinto, con Zeus che si tramuta in pioggia d'oro per coniugarsi con Danae rinchiusa dal padre in una stanza di bronzo, era già stato ampiamente raffigurato nel Cinquecento da artisti come Correggio e Tiziano.
La impaginazione del quadro mette in primo piano la completa nudità di un corpo dalle esuberanti rotondità e sottolinea la voluttà di uno sguardo che – assieme alla scoperta simbologia delle monete che si vanno raccogliendo nella sua zona pubica – indica l'approssimarsi dell'acme del piacere sessuale.
Nel buio della stanza, dietro il letto in cui Danae consuma il suo simbolico congiungimento con Zeus, è raffigurata l'ancella che si disinteressa completamente a quanto accade alla sua padrona, intenta com'è ad approfittare della pioggia di monete d'oro, raccogliendone quanta più possibile nei lembi rialzati della sua veste.
Giuditta e Oloferne
di Artemisia Gentileschi
Giuditta e Oloferne, che colpisce per l'elevata dose di violenza che la contraddistingue (nonostante sia opera di una donna!), per l'immediatezza dei soggetti raffigurati, per il gusto teatrale tipicamente barocco e per la sapienza con la quale vengono impiegati i colori. La freddezza e l'impassibilità di Giuditta, il suo sforzo nel tenere ferma la testa di Oloferne, il generale che a sua volta tenta di respingere la serva che aiuta la protagonista a decapitare il nemico: la tela proposta da Artemisia Gentileschi assume anche una connotazione autobiografica, quando la giovane, all'età di diciotto anni, fu stuprata dal pittore Agostino Tassi, all'epoca collaboratore di Orazio Gentileschi. Così si può capire le ragioni di una così grande carica di violenza. La produzione di Artemisia Gentileschi è un continuo richiamarsi alla triste vicenda, e le sue opere abbondano di giovani simbolo dell'innocenza che devono soccombere alla brutalità. La grande ferocia di Giuditta nel tagliare la testa del generale nemico potrebbe essere ricondotta alla rivalsa, alla vendetta della donna nei confronti dello stupratore. La giovane voleva far sì che la sua vicenda rimanesse impressa sulla tela in modo da ricordare tutto il suo dolore anche nei secoli successivi. Un grido di disperazione di una giovane violata, un tentativo di consegnare alla storia dell'arte l'offesa subita e di far comprendere a tutti la sofferenza provata.
In questa corpulenta e scomposta figura femminile, dall’aspetto più lascivo che drammatico, Artemisia mostra di aver appreso pienamente la lezione provocatoria del realismo caravaggesco, andando ben al di là di quanto le poteva derivare dall’apprendistato svolto sotto la guida del padre Orazio.
Osserva, a questo riguardo, Vittorio Sgarbi:
«Il suo realismo è assoluto, imminente, senza nessuna concessione lirica o intimistica. […] Raramente un nudo ha rinunciato nelle forme e nella posa ad ogni esterna gradevolezza. Noi, di questa Cleopatra, sentiamo gli odori, il sudore, la puzza. […] una Cleopatra mai meno regale. Una donna e basta, corpo prima che anima, esistenza prima che essenza.»
Cleopatra
di Artemisia Gentileschi
La Maddalena
di Carracci
La tradizione è quindi solita ritenere il dipinto della Pinacoteca Nazionale di Bologna il ritratto della madre menzionato da Malvasia.
È un dipinto in cui Guido Reni sposa l'adesione al naturale della pittura carraccesca e il ritratto della madre è uno dei più intensi di tutto il Seicento: l'artista dà prova di grande profondità nel comprendere lo sguardo della donna e di restituirlo sulla tela, nonché di eccezionale abilità nel raffigurare un ritratto altamente veridico.
L'opera ritrae la santa durante il suo periodo di meditazione e di penitenza: era un soggetto particolarmente diffuso nel Seicento in quanto tra i preferiti della Controriforma, per il fatto che la Maddalena era uno dei più chiari esempi di peccatori convertitisi. La santa è infatti eterea, ogni accenno carnale viene sopito (indossa una veste abbondante e i capelli le coprono le forme del seno) e il suo sguardo è rivolto verso il cielo, mentre due angeli sopraggiungono.
Vicino alla santa compaiono alcuni dei tipici attributi della Maddalena in penitenza, vale a dire il teschio, su cui poggia la mano e che ricorda la caducità della vita, il crocifisso, davanti al quale la penitente prega, e un piccolo fascio di radici sulla sinistra (quest'ultimo attributo, a dire il vero, piuttosto inusuale), simbolo di digiuno.
Il dipinto raffigura una giovane ragazza, seduta su di una sedia bassa, con le mani sul proprio grembo. Alla sua destra vi è una natura morta di gioielli sul pavimento. Essi sembrano alludere al rifiuto della vanità e del peccato. Accanto ai gioielli, una bottiglia trasparente e chiusa, contenente un liquido che la riempie per tre quarti. La fanciulla è ritratta penitente, come sembrano indicare l'espressione triste e piangente ed i gioielli gettati a terra. Lo sguardo della donna non è rivolto all'osservatore, ma verso il basso, in una posizione che è stata paragonata ad alcune rappresentazioni tradizionali di Gesù Cristo crocifisso. Una lacrima scende lungo la guancia al lato del naso. La luce (allegoria della salvezza divina) che irrompe nel buio della stanza (cioè del peccato) simboleggia la redenzione della Maddalena.
L'utilizzo di uno specchio convesso per ritrarre la scena dall'alto dona all'immagine una prospettiva schiacciata, che riduce le gambe ed enfatizza l'ovale che racchiude il busto nella linea conclusa formata dalle braccia conserte e dal capo reclinato.
La Maddalena
di Guido Reni
Ritratto della madre
di Guido Reni
La deposizione
di Rubens
Il dipinto rappresenta la deposizione nel sepolcro, con Giuseppe d'Arimatea, la Madonna, san Giovanni Evangelista e la Maddalena che commentano e piangono l'evento. Il corpo esanime di Cristo è sostenuto dalla Madonna: a fianco a lei, le figure (da sinistra) di Giuseppe di Arimatea, Giovanni Evangelista, una figura femminile (probabilmente è una delle pie donne), e santa Maria Maddalena, che è la giovane bionda sulla sinistra, con un seno scoperto, che con una mano tiene la mano sinistra di Cristo e con l'altra si asciuga una lacrima. La Madonna rivolge lo sguardo al cielo e sta per svenire, ma san Giovanni cerca di soccorrerla reggendola a sua volta con le mani. I personaggi si dispongono ad arco attorno alla possente figura di Cristo, intrisa probabilmente di echi michelangioleschi, che è completamente illuminata.
Il pittore ritrae sua moglie Saskia abbigliata di vestiti contemporanei e adornata di fiori.
Alcuni particolari sembrano rievocare volutamente la dea Flora (la corona di fiori, l'asta di legno con edera e altri fiori all'estremità).
Poiché la donna è stata ritratta nel periodo della sua gravidanza, Rembrandt ha voluto così offrire un lieto omaggio alla maternità, quale fresco momento di gioia e prosperità.
La giovane è rappresentata nuda e a grandezza naturale, seduta in primo piano a destra su un ricco drappo poggiato su una panca accanto al bordo della vasca. Nell’angolo inferiore sinistro della tela si intravedono pochi particolari di un’ancella che si accinge a lavarle i piedi. Betsabea ha il capo leggermente inclinato in avanti, nella mano destra appoggiata al ginocchio stringe la lettera di re David e lo sguardo rivela tutto il tormento interiore: rimanere fedele al marito o ubbidire al re. Per non offuscare il protagonismo assoluto della giovane e del suo momento di intima titubanza, nel quadro non viene ritratto nessun altro personaggio della vicenda: non vi appare né re David né il suo messaggero. In perfetta compostezza Betsabea appare sola (è poco rilevante la presenza della vecchia ancella), in forte tensione interiore, in preda al dilemma. Posta di fronte a una decisione che solo a lei spetta e alla quale proprio non può sfuggire, medita la risposta.
Saskia in veste di Flora
di Rembrandt
Betsabea con la lettera di David
di Rembrandt
Su uno sfondo scuro, una fanciulla rappresentata con mezzo busto di profilo ruota la testa di tre quarti verso lo spettatore, in favore della luce che spiove da sinistra. Indossa un mantello color rame e una camicia bianca di cui si vede solo il colletto, oltre a un inusuale turbante fatto di una fascia azzurra che avvolge la testa e un drappo giallo annodato che pende dalla nuca fino alle spalle, terminando in frange azzurrine. Il volto della ragazza, intriso di luce, mostra una rara bellezza: labbra rosse carnose e dischiuse, naso sottile e dritto, occhi grandi e vivi. La luce delle pupille è poi richiamata dall'orecchino con una grossa perla, che brilla sulla penombra del collo.
L'artista ha catturato con viva immediatezza l'espressione sfuggente, carica di un'innocente languidezza. Il fondo scuro mette in risalto le zone di luce, col colore applicato in pennellate dense e uniformi, poco sfumate, tranne nell'incarnato delicato e in alcune zone dove sono presenti piccoli punti, come nel contorno della bocca.
Ragazza con orecchino
di Jan Vermeer
Fanciulla con cappello rosso
di Jan Vermeeer
Una ragazza è rappresentata a mezzo busto mentre, di profilo, gira lo sguardo verso lo spettatore, voltandosi in favore di luce. Indossa un vistoso cappello piumato rosso, di gusto esotico, che le accende di riverberi colorati il delicato volto. Sembra colta in un'istantanea, in una posa immediata e informale, con le labbra languidamente dischiuse. Indossa due orecchini di perle e un mantello azzurro al di sopra di un alto colletto bianco. Il braccio destro appare poggiato all'altezza della cornice del dipinto, sullo schienale di una sedia di cui si vedono solo le estremità con teste leonine, inconsuetamente rivolte allo spettatore, come se la figura stesse seduta su un'altra sedia non raffigurata.
La tecnica di pittura, fatta di tocchi di luce non completamente fusi, è compatibile con alcune opere di Vermeer, mentre è assente da altre. È stato notato come la stesura piuttosto rapida e di tocco sia inconsueta per l'artista, ma trattandosi di un'opera estremamente piccola dettagli che qui appaiono sfocati e grezzi, visti alla dovuta distanza, si addolciscono come in molti altri dettagli di lavori autentici del pittore. Anche la leggera sfocatura del primo piano, che riproduce una visione attraverso strumenti ottici come il telescopio rivoltato, è tipica dell'artista.
Venere allo specchio
di Velasquez
Il tema è tratto dalla mitologia romana e rappresenta Venere adagiata mollemente su un letto tra lenzuola di raso, mentre Cupido, riconoscibile per la faretra e le ali, le regge uno specchio. Sullo sfondo una tenda rossa, scostata per metà, accentua la parte sinistra e riprende con eleganza la curva del corpo della dea.
L'intera rappresentazione è comunque un pretesto per celebrare la bellezza femminile ideale. La dea è nuda, ritratta di schiena per non offendere il pudore degli inquisitori spagnoli; e il suo volto, visibile tramite il riflesso dello specchio tenuto da Cupido è quasi indistinto, lasciando allo spettatore il compito di completare idealmente il volto della dea. Per realizzare il suo ideale di bellezza ed eleganza Velázquez applicò alcune accentuazioni anatomiche, poco appariscenti su una figura distesa, ma ben visibili se si ruota lo sguardo o si immagina la donna in piedi: i fianchi ad esempio sono quasi più larghi delle spalle.
Il contrasto dei toni pastosi e forti delle lenzuola grigie e del tendaggio carminio fanno risaltare la carnagione di Venere, lunare e perlata. Il lenzuolo grigio scuro sul quale sta appoggiata la dea era originariamente di un intenso color viola, oggi sbiadito.
Mara Anna d'Austria
di Velasquez
Maria Cristina d'Austria
di Velasquez
Isabella di Spagna
di Velasquez
Las Meninas
di Velasquez
Il dipinto Las Meninas nella sua perfezione cromatica e geometrica ad una prima osservazione non appare per nulla misterioso, e la sua descrizione è semplice: all’interno di una delle stanze del palazzo reale, adibita a studio del pittore, viene rappresentata l’erede al trono, Margherita, accompagnata dal suo seguito: la damigella d’onore che si piega verso la principessa, la dama d’onore posta dietro a Margherita, sulla destra di chi guarda, e i due nani di corte.
Sulla sinistra appare Diego Velázquez: è in piedi con pennello e tavolozza, intento a dipingere; sulla destra e più indietro rispetto alla prima fila di persone appaiono un’altra dama d’onore e un uomo della corte. In fondo sono appesi alcuni quadri dipinti dal genero di Velazquez e raffiguranti le metamorfosi di Ovidio; accanto a questi quadri e posto vicino alla porta è appeso uno specchio in cui sono riflessi i regnanti, genitori della principessa. In mezzo alla porta, in piedi su una scala è ritratto il ciambellano della regina.
La struttura ed il posizionamento spaziale delle figure è tale che il gruppo di damigelle intorno all'Infanta sembra stare dal "nostro" lato, di fronte a Filippo IV e sua moglie Marianna. Non solo il quadro è dipinto per loro beneficio, ma anche l'attenzione del pittore è concentrata su di essi, poiché sembra che stia lavorando al loro ritratto. Nonostante possano essere visti solo nel riflesso dello specchio, re e regina sono il vero punto focale del dipinto verso cui sono diretti gli sguardi di quasi tutti i personaggi. Come spettatori, capiamo di essere esclusi dalla scena, poiché al nostro posto c'è la coppia regnante. Ciò che sembra a prima vista un dipinto "aperto" si dimostra essere completamente ermetico - una affermazione ulteriormente intensificata dal fatto che il dipinto di fronte a Velázquez è completamente nascosto alla nostra vista.
Antonio e Cleopatra
di Tiepolo
Rinaldo abbandona Armida di Tiepolo
Armida è umana, troppo umana, con braccia spalancate per implorare l'amato; indossa i colori del fuoco e il blu intenso, seduta a terra, disperata, vinta. Rinaldo, con aria mesta e sofferente nel dubbio se partire, pare un Cristo di quel secolo, in piedi con il mantello e lo scudo. I compagni lo sorreggono e uno addita la barca in attesa, a destra. Anche il pino è proteso in quella direzione. Trionfa la virtù ed è la sola morale per il Tiepolo. Sicché l'eroe vero, che attraverso la passione matura e raggiunge la virtù come in un viaggio iniziatico, è Rinaldo. La povera Armida, "femme fatale", con tutti i suoi incantesimi, l'avvenenza e le malie, è vittima. Il vincitore resta il maschio che sceglie la guerra, l'indipendenza e la fede, a scapito dell' amore..
Ambasciata del moro di Pietro Longhi
La venditrice di essenze
di Pietro Longhi
Lezione di musica di Pietro Longhi
Lezione di geografia
di Pietro Longhi
Il decennio compreso tra il 1750 ed il 1760 è per l'artista il periodo della ritrattistica di famiglia. Qui la composizione viene integrata con una notazione di netto stampo illuministico: la scienza viene dibattuta e diffusa anche tra i non profondi conoscitori – aristocratici ma anche borghesi – e sviluppata dall'artista in un aspetto ancor più mondano, seguendo le mode dell'erudizione, tra le quali assai nota è quella del "Newtonianismo" nelle dame di Francesco Algarotti (Venezia, 1712 – Pisa, 1764).
Il farmacista
di Pietro Longhi
Pittore principalmente dell'alta borghesia mercantile veneziana, propone nella sua pittura, un'attenta osservazione e la cronaca puntuale del costume sociale di un'intera epoca. Con il Longhi, i fatti della vita sono veduti e annotati
annotati oggettivamente e cioè senza pregiudizi sociali o intenzioni moralistiche. È la vita sociale, come tale, che diventa materia di pittura e non si propone di copiarla né d'interpretarla, ma semplicemente di vederla con mente attiva, cioè con acutezza o arguzia.
Il farmacista: Nel quadro lo scrivano compila ricette da farsi con le erbe contenute negli svariati vasi alle sue spalle, in primo piano troneggia una lussureggiante pianta di Agave, che col suo verde intenso fissa la scena e ci da il punto focale di lettura della stessa. Gli altri pazienti attendono speranzosi, che il farmacista termini la cura del fastidioso mal di denti che affligge la popolana davanti a lui, l’attesa, lunga e “dolorosa” si rispecchia negli ambienti.
Madame Recamier
di J.L. David
Juliette Récamier era considerata una delle giovani più note e belle del tempo. David la ritrasse come una moderna vergine vestale con lo sguardo sbarazzino, ma con il corpo girato a indicarne la castità.
Magritte riprenderà la stessa ambientazione ponendo come soggetto la bara della vergine al fine di accentuare la caducità della bellezza e della vita.
Fanciulla con ventaglio
di P.A. Rotari
I ritratti del Rotari singolarmente e nel loro insieme come accumulazione di volti e tipi femminili rappresentano un'opera originale e modernissima e lasciano lo spettatore spesso attonito di fronte alla capacità di esprimere sentimenti, stati d'animo, pensieri e caratteri quasi che il pittore sia riuscito a raffigurare l'anima del proprio soggetto creando un catalogo di tipi femminili e umani. Abbiamo così espressioni e pose civettuole, ammiccanti, benevole, tristi, assonnate, seduttive, innocenti, languide, scostanti, arrabbiate, maliziose, rese con una grande capacità tecnica in cui lo spettatore viene assorbito a lungo.
Prospettiva
di Magritte
Magritte nel suo dipinto celebra le esequie di un'immagine e fornisce alla donna una bara in stile impero. Questa, però, non è Madame Récamier di David e solo una sua immagine che vive una vita sua, che contempla anche la morte. Le Prospettive indicano invece che la pittura muore quando viene considerata esclusivamente rappresentazione, quindi la vita delle immagini dipende dalla vitalità del pensiero, dalla capacità di dare loro un'esistenza indipendente da quella reale.
Maja vestida
di F. Goya
Maja desnuda
di F. Goya
dere soddisfatta e contenta delle sue grazie: è la prima opera d'arte a noi pervenuta nel quale vengono dipinti i peli pubici, che risaltano nel complessivo erotismo della composizione. Con questo dipinto la donna è reale, carne e sangue. È cioè il ritratto preciso di una donna nuda sdraiata fra lenzuola stropicciate che espone la propria sessualità per attrarre lo spettatore. Il volto è affilato, sottile, gli occhi allucinati, senza trucco ma vivi e mobili, i capelli morbidi e arricciati. Il corpo, di orgogliosa naturalezza, dalle minute proporzioni, è particolarmente luminoso.
Quest'opera risulta audace e singolare per l'epoca, come parimenti audace è l'espressione dello sguardo e l'atteg-giamento della modella, che sembra sorri-
Il velo bianco di questa Maja si stringe talmente alla figura, in particolare ai fianchi e al seno, da farla sembrare quasi più nuda della Maja desnuda. La fascia ai fianchi è di seta luminosa, la giacchettina gialla e nera non è il clas-sico bolero, e le sue scarpe dalla punta lunga e affusolata sono più tipiche delle ricche signore che delle majas: sembra quasi che il pittore abbia voluto ritrarre una donna aristo-cratica che amava vestirsi come le giovani popolane; questo, insieme con gli abiti disegnati con l'unico scopo di far risaltare la sensualità del corpo, rende il tutto carico di ambiguità: il travestimento fonte di erotismo, lasciando allo spettatore il compito dello svelamento.