I ricercatori ISPRA, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale di Trieste, hanno realizzato uno studio relativo all’Adriatico. Lo studio, che ha attirato l’attenzione della stampa nazionale ed internazionale, aveva come scopo l’analisi dei cambiamenti della comunità ittica dell’Adriatico negli ultimi due secoli (1800-2000). Per ovviare alla carenza di dati quantitativi, è stata raccolta una serie di descrizioni della fauna ittica dell’Adriatico analizzando le pubblicazioni dei naturalisti a partire dall’inizio del 1800. In questi documenti i naturalisti (antesignani dei moderni biologi marini) descrivevano le diverse specie marine indicandone non solo i tratti morfologici e biologici essenziali, ma anche la loro abbondanza percepita, ovvero se fossero specie rare, comuni o molto comuni. Allo stesso modo, grazie ad una accurata analisi presso biblioteche ed archivi italiani e stranieri, sono stati riscoperti dati di pescato per l’Adriatico a partire dal 1874 ad oggi.
Mediante un approccio matematico che ha permesso di calibrare le due serie di dati (naturalisti e sbarcato), è stato quindi possibile ricostruire i cambiamenti della comunità ittica dell’Adriatico negli ultimi due secoli.
I risultati mostrano che vi sono state profonde alterazioni, con un significativo declino dell’incidenza dei pesci cartilaginei (squali e razze), delle specie di grande dimensioni e di quelle che hanno una elevata taglia di prima maturità sessuale. Queste specie sono particolarmente sensibili al disturbo della pesca.
Lo studio evidenza che tali cambiamenti sono avvenuti già prima della diffusione del motore nelle imbarcazioni da pesca (avvenuta approssimativamente negli anni ’50) indicando che l’attività di pesca era in grado di alterare, tra il 1800 ed il 1900, le popolazioni marine. Altre fonti di disturbo ecologico che dal secondo dopoguerra hanno incrementato il tasso di erosione della biodiversità marina in Adriatico sono, ad esempio, bassi valori di salinità, eutrofizzazione, anossie, spiaggiamento di organismi, cambiamenti climatici.
Questa ricerca indica quindi la necessità di incrementare ulteriormente i nostri sforzi per tutelare i nostri mari, ricordandoci che questi sono oggi profondamente diversi dal passato. Un mare da proteggere quindi, non solo da amare.
Rifiuti in mare: cosa stiamo facendo?
I rifiuti in mare hanno un forte impatto ecologico, ma anche economico e sociale. È soprattutto la plastica, che arriva all’80% di tutti i rifiuti, a rappresentare un problema per gli ecosistemi.
Se fate una passeggiata lungo la spiaggia dopo una mareggiata vi renderete conto di quanta spazzatura gira nei nostri mari: la sabbia è cosparsa di bottiglie, tappi e sacchetti di plastica, accendini usa e getta, reti e attrezzature da pesca, imballaggi in polistirolo e altro.
Per comprendere gli effetti prodotti dall’abbandono dei rifiuti sull’ambiente che ci circonda, basterebbe considerare i tempi in cui si degradano in maniera naturale alcuni oggetti d’uso comune che contaminano i nostri mari: per una lattina di alluminio occorrono 100 anni, per un mozzicone di sigaretta 2 anni, per una gomma da masticare 5 anni, per una bottiglia di plastica 1.000 anni, per una bottiglia di vetro ne occorrono dai 1.000 in su.
Benché le fonti dei rifiuti in mare siano difficili da rintracciare, la maggior parte di essi provengono da fonti terrestri, mentre anche le attività marittime (trasporto e turismo) danno un rilevante contributo. Dalle bottiglie di plastica alle buste “usa e getta”, fino alle microparticelle, il 75% dei rifiuti che si trovano in mare sono costituiti dalla plastica.
Da dove arriva tanta immondizia in mare?
Soprattutto dalla terraferma attraverso i fiumi che, in particolare nei momenti di piena, trasportano in mare tutto ciò che l’uomo in maniera diretta o indiretta vi getta. È curioso notare come la proporzione di articoli in plastica fra i rifiuti marini aumenta con la distanza dall’area “sorgente”, poiché essi sono trasportati più facilmente rispetto a materiali più densi come il metallo o il vetro e hanno una durata maggiore rispetto a quelli meno densi come la carta. I rifiuti in mare hanno un forte impatto ecologico, ma anche economico e sociale. È soprattutto la plastica, che arriva all’80% di tutti i rifiuti, a rappresentare un problema per gli ecosistemi. Se riflettiamo sulle due caratteristiche chiave che rendono la plastica un materiale così diffuso e apprezzato, la durabilità e la leggerezza, ci rendiamo subito conto come esse rappresentino nello stesso tempo una minaccia ambientale: infatti la non degradabilità e la capacità di galleggiare rendono questo materiale, insieme alla sua grande diffusione, il più persistente nell’ambiente e il più impattante anche da un punto di vista estetico.
I mari e gli oceani rappresentano allo stato attuale gli ecosistemi meno conosciuti del nostro pianeta. Una frontiera in gran parte sconosciuta, inesplorata.
I colori e le forme degli organismi che vivono in quell’ambiente tolgono, dal punto di vista estetico e comunicativo, il respiro. Forme inusuali e modi di vivere ai più sconosciuti, il tutto in quel luogo che ha dato origine alla vita sul nostro pianeta. Il mare è davvero la madre di tutti noi, apparteniamo a quel vasto insieme di organismi nati dal mare e che solo attraverso le complesse alchimie dell’evoluzione si sono in tempi remoti trasformati prima in anfibi e poi in animali terrestri; dalla respirazione branchiale a quella polmonare.
Solo da poco ci siamo affacciati sul bordo del mare anche se le applicazioni connesse al suo sfruttamento hanno assunto nel tempo tendenze esponenziali rivolte in particolare all’acquisizione di risorse alimentari (pesca e maricoltura).
Tra i diversi risvolti connessi agli usi del mare merita d’essere citata una tendenza recente, quella riguardante l’estrazione da organismi marini di sostanze e molecole per la cura di malattie complesse. Le più importanti multinazionali farmaceutiche stanno investendo in questo settore con esiti a dir poco sorprendenti. Fino a oggi sono stati identificati più di 7.000 principi attivi, il 33 % dei quali provenienti dalle spugne.
Il fronte sulla esplorazione delle acque salate è stato appena aperto, siamo solo agli albori; nel frattempo, l’uomo sta imponendo sui mari i suoi ritmi e le sue pressioni, in molti casi superiori alle possibilità di ripristino delle risorse consumate.
Possiamo affermare che nonostante non abbiamo ancora una visione complessiva di questo straordinario ecosistema, siamo al contrario già da tempo in grado di impoverirlo e insudiciarlo.
Mare Adriatico:
uno scrigno di biodiversità